EYELESS IN GAZA
di Michele Benetello (Il Mucchio Selvaggio, n. 491)
Inconsapevoli padri di tanto del cosiddetto new acoustic mouvement come di certo pop obliquo, jazzato e dalle trame elettroniche (Fra Lippo Lippi, Lotus Eaters, China Crisis che da un loro brano piglieranno il nome -, Everything But The Girl, finanche per certi versi Kings Of Convenience) gli Eyeless In Gaza, nonostante 4 lustri abbondanti di carriera e centinaia di incisioni disseminate nel tempo, rimangono un autentico culto sotterraneo. Sporadiche apparizioni nelle classifiche indipendenti inglesi (l’arrampicarsi al n.5 di Rust Red September il traguardo massimo, nel luglio 1983) e sterminate discografie (in coppia o in perfetta solitudine) hanno costruito negli anni un piccolissimo nucleo di seguaci e fedeli. Capaci di spaziare dal pop sopraffino all’ambient isolazionista, dall’esemplare intarsio melodico a lunghi drones elettronici Martyn Bates e Peter Becker sono stati degli autentici anticipatori di gran parte del pop più soffuso e timido che di questi tempi gremisce il panorama, e la loro proverbiale prolificità (unita ad una irrequietezza nell’accasarsi presso le etichette più disparate, pur se Cherry Red è sempre rimasta l’alcova preferita) ha in qualche modo nuociuto a carriera ed immagine, relegandoli in un infinito limbo.
E’ dopo aver dato alle stampe (sotto l’egida Migraine Inducers) il nastro Antagonist Music/Dissonance che Martyn Bates incontra Peter Becker. E’ il 1980, e i due uniscono le forze scegliendo quale denominazione sociale Eyeless In Gaza (da una novella di Aldous Huxley) decisi ad esplorare paesaggi di confine, laddove il pop si fonde con l’elettronica minimale, dove il folk rurale devia verso certa canzone d’autore, dove lo stridere delle macchine scarta verso un country timido. Un singolo autoprodotto in 1000 copie (Kodak Ghosts Run Amok), un nastro di medesima produzione (They Brought Stratosphere, traboccante di strumentali ninne nanne) e la tipica fila alle etichette specializzate in nuovi suoni. E’ Cherry Red che accetta di dar credito ai due ragazzi, colpita dalle sottili trame delle composizioni, che uniscono synth a basi industriali, quasi dei Cabaret Voltaire a cena con Steely Dan. Di qui la copiosa produzione: Photographs Of Memories è il primo, vero album, e contiene in nuce – nelle 13 composizioni di convulso pop elettronico, quasi tutta la cornucopia delle creazioni future, oltre a svelare una coppia di compositori già maturi, capaci di edificare con gusto sghembe strutture. Seven Years sciabola giri impietosi di synth dal sapore orientale su un crudele riff di chitarra; From A. To B. è una bossanova tetra che viaggia dalle parti di Marine Girls e Antena; Clear Cut Apparently è new wave a basso costo e dal basso pulsante, quasi i Devo a spina staccata; mentre John Of Patmos stupisce con le sue isteriche movenze dal piglio industriale su robuste braccia free jazz; Knives Replace Air è una di quelle canzoni che, di lì a un paio d’anni, finiranno in classifica, ripulite e rese accettabili a corte da complessi quali i citati China Crisis o Lotus Eaters, in più qui vi è una coda che rimembra Joy Division; ultima ma non ultima Fixation, drum machines siliconate su un impossibile technopop che sfiora Cabaret Voltaire, Glaxo Babies e Van Der Graaf Generator. E proprio Peter Hammill sembra essere il referente più prossimo e l’ispirazione primaria di Martyn Bates, i cui vocalizzi ora crudeli, ora più soffusi pur non avendo l’estensione vocale dell’ex Van Der Graaf lo riecheggiano comunque in più di un passo, soprattutto nel modo in cui si porgono al formato canzone. Urgente, nevrotico ed eclettico, Photographs Of Memories resta album senza tempo (regge benissimo anche ora, e starebbe da Dio su qualche notturno Brand New) proprio per l’incredibile intersecarsi e sfiorarsi di acustico, elettronico e industriale.
Resta episodio isolato, impellente necessità da debutto. Pur rispettando il proprio standard gli Eyeless in Gaza concentrano gli sforzi nell’aspetto formale della loro visione di pop, rimanendo fedeli ad un canovaccio brevettato ma mondandolo dagli arrangiamenti enigmatici o dalle disparate influenze che avevano concorso a formare l’esordio. Sarà evidentissimo in album quali Rust Red September e Back From The Rains, lavori dalla cristallina visione pop, dove la voce di Bates (particolarissima e dal perfetto afflato melodico) sarà libera di librarsi tra reverberi, scrosci di tastiere e punzecchiare di corde. Intendiamoci, restano bellissimi, e sono proprio questi che mi sentirei di consigliare ai cuori gentili che fremono e lacrimano sui nuovi acustici. L’incredibile mole di lavori (quasi tutti reperibili agevolmente a medio prezzo nel sito della Cherry Red) non impedirà al duo di chiudere gli occhi (non a Gaza, ma nella più fredda Inghilterra) nel 1987 – disillusi da cotanto ostracismo – non prima di aver sparso per l’aere almeno un altro paio di dozzine tra singoli, album e raccolte, e dando il via ad un’altra copiosissima messe di prodotti solisti (da citare almeno l’ottimo The Return Of The Quiet di Bates nel 1987) e collaborazioni sparse (Anne Clark, Deidre Rutkowski dei This Mortal Coil, Mick Harris degli Scorn, Simon Fisher Turner, Bill Laswell). L’immancabile reunion li coglierà nel 1993, lucidi e caparbi nel voler portare avanti quella miscela sonora che concorsero ad inventare in quell’inizio decade di tanti anni fa.
Discografia di base:
Photographs As Memories (Cherry Red, 1981)
Caught In Flux (Cherry Red, 1981)
Pale Hands I Love So Well (Uniton, 1982)
Drumming The Beating Heart (Cherry Red, 1982)
Rust Red September (Cherry Red, 1983)
Back From The Rains (Cherry Red, 1986)
Kodak Ghosts Run Amok (raccolta Cherry Red, 1987)
Transcience Blues (raccolta Integrity, 1990)
Orange Ice & Wax Crayons (Document, 1992)
Voice (Cherry Red, 1993)
Fabulous Library (Orchid, 1993)
Saw You In Reminding Pictures (Hive-Arc, 1994 limitato a 1000 copie)
Bitter Apples (A-Scale, 1995)
All Under The Leaves, The Leaves Of Life (ASR, 1996)
Song Of The Beautiful Wanton (SOL, 2000)